Произведение «Я - солдат» (страница 2 из 2)
Тип: Произведение
Раздел: Переводы
Тематика: Переводы
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«Я - солдат» выбрано прозой недели
23.04.2012

Я - солдат

мои рисунки забрали. Я сделал их снова, и их снова изъяли. Думаю, что именно в этот момент я объявил войну России. Свою личную войну. Не знаю сколько раз я вновь и вновь делал те рисунки. Много. Мне не удалось привезти домой ни одного. Но то, что я делал и переделывал их бесконечно, помогло запомнить мне те линии настолько, что вернувшись в Италию, я смог воссоздать их заново почти достоверно.
 
    Однажды утром одна из дежурных, поставленных вдоль коридоров, сказала нам, что война закончилась. Но для нас ничто не изменилось. Прошло еще некоторое время до нашего окончательного освобождения. Время, которое нам показалось бесконечным. Я провел почти четыре года заключенным в Спасо-Ефимьевом монастыре. В день, когда я освободился, в апреле 1946 года, радость возвращения домой странным образом наложилась на грусть прощания с этими местами, такими красивыми, которые на долгое время стали нашим местожительством. И чувство сожаления умножилось от мысли, что многие из нас останутся, обвиненные в действиях, направленных против Советского Союза, осужденные и приговоренные к заключениям до 25 лет, с отбыванием на Лубянке, в Лефортово или Бутырке.
 
    Возвращение домой не отличалась от дороги на фронт, не считая, что климат был более благоприятным. Настроение же напротив, было совершенно другим!
Не помню, сколько дней оно длилось. Были и длительные стоянки, в течение которых обращение с нами, прибереженное напоследок русскими, было абсолютно иным. Нам были предоставлены большей частью лучшие жилища и еда. А также полная свобода. Мы должны были увезти с собой приятное воспоминание об этом последнем периоде, как будто оно могло стереть в памяти прошлое.
 
    Когда я сошел на станции в Пизе и снова шел домой, я с трудом узнавал родные места, настолько они изменились. Было славно вновь увидеть свою мать, сестер, отца. Я был дома. И, наконец, мог подумать о своем будущем.
 
    Многие годы я хранил в своей памяти эти воспоминания и рассказывал их детям и внукам. Суздаль всегда оставался в моем сердце и когда в 1990, а потом и в 2001 году я имел возможность вернуться туда, волнение не оставляло меня. Я дорисовал, наконец, свои рисунки.
   
    Любое испытание нашей жизни способствует созданию нас такими, какие мы есть.
 
    Я навсегда буду вернувшимся из России.



Послесловие:
Io, soldato ( versione integrale, aggiornata)

Pubblicato da paxhole il Gio, 12/05/2011 - 17:01


Ritengo doverosa una premessa.

Questo racconto nasce grazie a mio nonno, l'io narrante, e al suo libro, “I miei vent'anni- Memorie di un soldato”, recentemente pubblicato dalla Regione Toscana. Ringrazio quindi l'uno per avermi dato il permesso di pubblicare qui il mio racconto e l'altro per l'ispirazione.

Perché le occasioni per ricordare non sono mai abbastanza...  

Salutare mia madre, quella mattina d'estate del 1942, fu la cosa più difficile. Le sue lacrime sembravano pesanti come macigni. Mi guardava e piangeva. Io, con la mia divisa da ufficiale, il piumetto sulle ventitré e lo sguardo fiero, avrei voluto dirle qualcosa, assicurarle che ero pronto, che avevo ben appreso l'arte della guerra, che sarei tornato vittorioso. Invece tacqui. Non si può mentire a una madre. Le detti un bacio sulla guancia e salii sul treno che mi avrebbe portato in Russia.

Avevo imparato tutto quello che un soldato deve imparare. Ma non la cosa più importante: temere la guerra. La giovane età, il nostro stesso addestramento aveva partorito uomini senza paura.

Il viaggio durò molti giorni, attraversando il “mostro di Guerra”, la Germania, e in seguito la Polonia, quasi rasa al suolo dalle bombe.

Quando varcammo il confine russo, la miseria di ciò che vedemmo dai nostri finestrini ci colpì come una fucilata. Le case erano poco più che capanne e le terre che le circondavano, sterminate. Ovunque vedevamo persone vestite solo con pochi stracci, animali smagriti dalla scarso nutrimento e devastazioni causate dalla guerra.

Scendemmo a destinazione, la cittadina di Millerovo.

Mi fu affidato il comando della 4° Compagnia del XVIII Battaglione, armi pesanti. Il nostro ordine fu quello di sostituire la 62 Divisione germanica di stanza a Migulinskaja, sul Don. Era Novembre. La neve era già caduta in abbondanza sulle sconfinate steppe e le giornate cominciavano a scorciare, costringendoci a muoverci in fretta.

Sul Don ci ritrovammo faccia a faccia col nemico. A separarci, un'ansa di terreno incolto dove le sentinelle di entrambi gli schieramenti passavano le loro nottate, le orecchie tese ad ascoltare ogni più piccolo rumore, gli occhi aperti per controllare ogni movimento, le mani congelate che stringevano i fucili.

Spesso le sentinelle venivano catturate e tenute come prigioniere di guerra. Non sapevo, allora, cosa accadesse ai nostri in mano nemica. Al contrario, quando i nostri facevano prigioniero un russo veniva portato nelle retrovie, interrogato e poi trattato come uno della truppa, seppur sorvegliato 24 ore su 24. Per loro significava la fine della guerra, cosa di cui erano ben lieti. Ignoravo, come gli altri del resto, quale sarebbe stata la nostra fine e quindi la loro. La nostra disfatta significò per questi uomini la libertà. Ma una libertà temporanea. Una volta tornati venivano considerati traditori, essendosi arresi al nemico, non più degni di appartenere alla “Grande Nazione Sovietica”. E quindi trasportati nei campi di lavoro.

Il 16 dicembre un nuovo ordine ci riportò indietro per costituire una seconda linea difensiva, più a ovest. La marcia ci portò a Kalmikoff, un paesino dove si erano rifugiate divisioni di diverse nazionalità tra cui tedesche e Croate. Regnava il caos. Molti erano gli sbandati, solitari in cerca dei loro superiori che vagavano di casa in casa.

Quando il Colonnello ci ritenne pronti per l'assalto al vicino paese di Meskoff, le cose cambiarono. Ci trovammo per la prima volta in pieno fuoco nemico.

Era l'inferno. Le pallottole volavano a pochi centimetri dalle nostre teste tra le grida dei comandanti a tenerci uniti, i lamenti dei feriti e i cadaveri a terra che imporporavano la neve. Quando la battaglia cessò eravamo rimasti meno della metà. Ci ritirammo nella prima isba che trovammo, a KalmiKoff. Sfiniti nel corpo e nello spirito ci ammucchiammo l'uno sull'altro, in cerca di un po' di tepore e del sonno. Quest'ultimo stentava ad arrivare. Negli occhi avevamo ancora impressi i corpi maciullati dei nostri compagni. Non avevamo potuto neanche portarli via.

Il mattino seguente,in alto, su una collina, ad attenderci, i russi con i mortai. Nessun ufficiale pensò di sventolare il camice bianco. La risposta russa fu quella di indirizzare i mortai alla massa di uomini che avevano ai loro piedi. Ebbe inizio la carneficina.

Non ebbi il tempo di riflettere e, ringrazio il Cielo ancora oggi, di vedere. Da quel momento per me e altri 5 uomini ebbe inizio la fuga.

Scrivendo questa breve memoria e ripensando alla nostra fuga, mi rendo conto di quanto possa essere stato incosciente il nostro atto. Ci sembrò l'unica alternativa, allora. Eravamo scappati senza vestiti pesanti, adatti al freddo che poteva raggiunge anche 30 gradi sotto lo zero in quel periodo dell'anno, senza cibo e equipaggiamento di soccorso. Ci arrangiammo al limite della sopravvivenza per diversi giorni. Marciavamo di notte e riposavamo di giorno. E' più preciso dire che ci nascondevamo, di giorno. Come avevamo imparato durante l'addestramento, ci rannicchiavamo a due a due, i piedi dell'uno nella giacca dell'altro, per evitarne il congelamento che ci avrebbe impedito di proseguire. Gli scarponi erano i nostri migliori amici, la neve l'unico sostentamento di cui disponevamo.

La fuga era iniziata il 21 Dicembre. Poco dopo arrivò il Natale. La sera della Vigilia gli animi erano smarriti. Pensavamo a casa, al calore delle nostre famiglie, lasciate a un destino a noi impossibile da conoscere. Uno degli uomini iniziò a piangere, disperato. Fu quel pianto a farci capire che avevamo bisogno di qualcosa che ci ricordasse la normalità. Era Natale? Noi lo festeggiammo. So che questo potrà apparire bizzarro, ma il solo rifugiarci sotto una coperta, legata a due alberi, e brindare con la neve, ci fece sentire meglio. Seppur per pochi attimi, in pace con noi stessi e il mondo.

La sera del 26 Dicembre trovammo finalmente del cibo e un fienile abbandonato. Dopo 6 giorni di marce e stenti, spossati,cedemmo al sonno, fino al mattino. Al nostro risveglio trovammo un cielo terso, di un celeste quasi impossibile. Sormontava la neve immacolata e luminosa, in una distesa infinita, a perdita d'occhio. Ci guardammo l'un l'altro, i volti felici per questo inatteso spettacolo di cui volevamo far parte. Riprendemmo quindi la marcia in pieno giorno, fiduciosi,convinti che saremmo stati solo dei puntini invisibili, persi in un mare latteo. Fu un errore fatale.

Una sventagliata di mitra ci riportò presto alla realtà. Ci avevano visti. Capimmo subito che la fuga verso la salvezza era al capolinea. Ingenui. La fine non poteva che essere la cattura, data l'immensità del territorio. Spazi di cui si vedeva solo l'inizio e mai la fine, ricoperti di un manto di neve che rendeva difficili gli spostamenti per uomini come noi, stanchi e affamati.

Il viaggio verso il campo di concentramento di Suzdal, dove eravamo destinati, fu una delle cose più terribili.12 giorni stipati in più di 60, in vagoni che potevano contenere al massimo 40 persone, dormendo a turno, senza praticamente cibo né acqua. Per placare la sete leccavamo i bulloni di ferro del convoglio, dove i nostri fiati si condensavano in un sottile strato di ghiaccio. Molti morirono durante il viaggio e i nostri aguzzini gettarono i cadaveri lungo le scarpate, a ingrassare la terra russa e i suoi campi sconfinati di girasoli e patate.

Il 18 gennaio del 1943 il treno si fermò a Vladimir, a 200 km da Mosca e 30 da Suzdal. Ci incamminammo verso la nostra destinazione con il buio, congelati, febbricitanti e deboli, incitati a proseguire dal grido delle guardie :« Davai, davai, davai bistrè!».

Io, insieme ad altri, fui alloggiato ( perdonatemi l'eufemismo) al Monastero del Salvatore S. Eufemio, il lager 160.

Per anni ho parlato di Suzdal come di un luogo quasi magico, ricco di colori, specialmente in primavera. Credo che la memoria adoperi dei meccanismi di autodifesa, relegando nell'oblio i dettagli terrificanti. I primi mesi di detenzione furono un vero calvario. La fame, il gelo, le condizioni igieniche precarie e le cure mediche quasi del tutto assenti decimarono migliaia di persone .Si calcola che dei 70.000 prigionieri catturati dall'URSS solo poco più di diecimila tornarono a casa. Vedevo passare ogni giorno compagni smagriti fino a vederne le ossa del torace, le gambe come stecchi di legno foderati di pelle e gli occhi cerchiati, spauriti, come nell'attesa di un evento improvviso e fatale. Ogni mattina i russi chiedevano:« Skolko caput?»( quanti morti?) e, ricevuta la risposta:« Devaitie, rabotaitie!»( forza, lavorate!- per buttar fuori, nella neve, i cadaveri-). A primavera i corpi sarebbero riaffiorati e ci avrebbero costretti a gettarli in una fossa comune. Per molte notti, una volta rientrato in patria, ho sognato il rumore secco della testa che sbatteva sui gradini delle scale (toc, toc, toc), quando un corpo veniva trascinato all'esterno.

Come molti dei miei compagni, presi la tubercolosi e passai un periodo di ospedalizzazione prima all'interno del campo e in seguito in un lazariet situato 40 km a nord di Suzdal. Quest'ultimo era stato da prima adibito ai soldati russi feriti al fronte e, solo in seguito alla loro evacuazione, organizzato per i prigionieri. Probabilmente fu il mio grado, oppure un caso, resta il fatto che quel lazariet e le cure che qui ricevetti mi salvarono la vita. Una volta tornato in forze fui rimandato al campo, in attesa di lavorare. In quanto ufficiale nessuno si aspettava da me che lavorassi assieme agli altri. Io, invece, cercai con tutte le mie forze di entrare nelle liste e ci riuscii. In tal modo potevo, sebbene solo per poche ore e strettamente sorvegliato, vedere il mondo che circondava le mura del Monastero.

Dapprima mi destinarono ai lavori nei campi, per la raccolta di carote e patate. In seguito arrivò un compito inaspettato: ridipingere i muri di un istituto per l'infanzia. Fu meraviglioso trovarsi in un ambiente così gaio. Anche se non avemmo mai la possibilità di vederli, ma solo di sentirli, i bambini furono un vero e proprio miracolo per la nostra anima. Pochi giorni dopo la Direttrice dell'istituto, avendo compreso la disponibilità che tutti noi mettevamo nel lavorare, ci chiese di fare dei disegni sulle pareti delle camere dei bambini. Ringrazio ancora oggi la Divina Provvidenza di avermi dotato di buone capacità artistiche, che mai come in quella occasione mi furono di aiuto e mi recarono gioia. Insieme ad un altro prigioniero italiano, disegnai sui muri una serie di animaletti che giocavano a rincorrersi: pulcini, oche, galline, coniglietti. Fu un'esperienza indimenticabile, indubbiamente la più bella degli anni trascorsi in prigionia.

La vita al campo, intanto, trascorreva senza che alcuna novità venisse a interrompere la monotonia. Sveglia all'alba, pasti frugali o assenti, interrogatori. Durante le mie uscite per andare a lavorare mi ero guardato spesso intorno, scoprendo le bellezze artistiche che la cittadina di Suzdal celava. Io non ne conoscevo né la storia né l'arte ma ne rimasi affascinato, colpito principalmente dai vivaci colori che ne marcavano la peculiarità, e volli cercare di riprodurle. Una distrazione, quella, che alleviò le sofferenze.

Trovai non poche difficoltà a reperire carta e penna. Grazie all'aiuto di un compagno, riuscii a mettere sotto il letto alcuno mozziconi di lapis. Per la carta dovetti trovare un altro sistema. Il Campo era fornito di una grande biblioteca. Per i russi l'indottrinamento era più importante del cibo e dell'igiene. Ogni giorno prendevo quindi in prestito alcuni libri ( tra cui “Il Capitale”, di Marx, ricordo bene) che il giorno seguente riconsegnavo in biblioteca, privati delle pagine iniziali e finali, le uniche immacolate e le uniche utili ai miei scopi. Su questa carta di fortuna disegnavo tutto quello che avevo visto, sia all'interno del monastero che all'esterno,nascondendo poi i disegni sotto il letto insieme alle matite. Malauguratamente questa accortezza non fu sufficiente. Durante una delle perquisizioni mi furono portati via. Rifeci i disegni, di nuovo. E di nuovo mi furono sequestrati. Credo fu in quel momento che dichiarai guerra alla patria Russia. La mia guerra personale. Non so per quante volte ho rifatto quei disegni. Molte. Non riuscii a portarne a casa neanche uno. Ma il fatto di farli e rifarli continuamente ebbe come risultato di imprimere quelle linee nella mia memoria tanto che, una volta in Italia, riuscii a ricrearle quasi fedelmente.

Una mattina una delle sentinelle poste lungo i corridoi ci comunicò che la guerra era giunta al termine. Le cose per noi, però, non cambiarono. Passò ancora del tempo prima che la nostra liberazione fosse definitiva. Un tempo che ci sembrò senza fine. Avevo passato quasi 4 anni chiuso nel Monastero di S. Eufemio. Il giorno in cui lo lasciai, nell'aprile del 1946, la gioia di tornare a casa ,stranamente, si sovrappose alla tristezza nel lasciare quei luoghi così belli, che erano stati la nostra dimora per tanto tempo. E il pianto si moltiplicò al pensiero di quelli che, tra noi, sarebbero rimasti, accusati di aver avuto comportamenti volti a contrastare l'URSS, quindi processati e condannati a pene anche di 25 anni, scontate poi alla Lubianka, Lefortovo o Butirka.

Il viaggio di ritorno non fu diverso da quello di andata, a parte il clima decisamente più favorevole. L'umore invece... quello, era tutta un'altra cosa!

Non ricordo quanti giorni durò. Ci furono anche lunghe fermate, durante le quali il trattamento che i russi ci riservarono fu completamente diverso. Alloggi e cibo migliore, per lo più. Ma anche una completa libertà. Dovevamo portare con noi un ricordo piacevole di quest'ultimo periodo. Come se tutto ciò avesse potuto cancellare il passato.

Quando scesi alla stazione di Pisa e fui ricondotto a casa stentavo a riconoscerne i luoghi, tanto erano cambiati. Rivedere mia madre, le mie sorelle, mio padre, fu magnifico. Ero a casa. Potevo finalmente pensare al mio futuro.

Per anni non ho fatto altro che conservare questi ricordi nella mia memoria o raccontarli a figli e nipoti. Suzdal è rimasta sempre nel mio cuore e quando, nel 1990 prima, e nel 2001 poi, ebbi occasione di tornarci l' emozione non mi abbandonò. Completai, finalmente , i miei disegni.

Ogni esperienza della nostra vita contribuisce a crearci così come siamo.

Io sarò per sempre un reduce della Russia.



                                                           
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Обсуждение
     00:01 23.05.2012
1
Спасибо Вам, взгляд с "той" стороны очень нужен порой, чтобы правильно смотреть на самих себя...
     21:42 25.06.2011 (1)
Вы делаете очень хорошие переводы, честное слово! Достойные. Вы нашли себя.
Данная работа заставила меня забыть, что это перевод.

Теперь несколько примечаний.
...удалось спрятать под постелью несколько кусочков ляписа... - Лучше заменить слово "ляпис" на "карандаш", потому что слова "lapis" и "matita" синонимы. Un lapis nero, rosso, turchino.
Вы не против? По-русски "ляпис" не дает полного представления о рисовании, особенно для незнакомых с живописью, рисунком.

...снег был единственным пропитанием... - Может, попробуете заменить на "единственным питанием" или "едой"? Но это всего лишь мое личное мнение.
Удачи!

P.S.  А я была в Суздале, там, где был тот лагерь. Приезжали старые итальянцы, хотели посмотреть.
     21:52 25.06.2011 (1)
Спасибо, Ирина! Пойду исправлять..., напишу "пищей"...  . Я в свою очередь напомню, что Суздаль-мужчина, а, значит, Вы были в Суздале  . Еще раз спасибо!!!
     22:04 25.06.2011 (1)
Это я, наверное, автоматом считаю все города женского рода!
Спасибо.
     02:38 26.04.2012 (1)
18 января 1943 года поезд остановился во Владимире
     08:47 26.04.2012 (1)
Здравствуйте, Jerry. Что-то не так в этой фразе или Вы привели пример "мужского" города? Давно Вас не видела  
     16:12 26.04.2012
доброго вам Галина! это подсказка для Ирины)))
     14:24 01.07.2011 (1)
Не знаю точен или нет перевод, но, то что был переведён этот интересный документ эпохи - замечательно! Спасибо и дальнейших успехов! Ваш А.Н.
     15:42 23.04.2012 (1)
Перевод устроил главного героя повествования, синьора Карло Ромоли    Его внучка, автор рассказа "Я-солдат", написала, что он немного знает русский язык, умеет читать. Кроме того, синьор Карло рассказал всем своим землякам в кафе на площади у фонтана, что его воспоминания перевели на русский язык. И, как это бывает, нашелся человек, который прочитал рассказ в кругу таких же пожилых людей на русском и итальянском языках. Живая история рядом с нами. Спасибо.
     21:23 23.04.2012
     09:08 23.04.2012 (1)
Спасибо за маленький шедевр!
     15:47 23.04.2012
Несколько лет из жизни Карло Ромоли. Его внучка Джулия подсказала,что существуют видеоматериалы на Youtube с его рисунками и интервью. А мне осталось совсем немного: перевести и предложить читателям fabulae.ru. Спасибо.
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